Verso la Luna: immaginario
Da Commissione Divulgazione - Unione Astrofili Italiani.
Luciano di Samosata - (Atene 120 – 180 d.C.)
ICAROMENIPPO (Il passanuvoli)
Traduzione di
Luigi Settembrini
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Dunque eran tremila stadii dalla terra sino alla luna, dove ho fatta la prima posata: di là fino al sole un cinquecento parasanghe; e dal sole per salir sino al cielo ed alla rocca di Giove ci può essere una buona giornata di aquila.
Pensai di appiccarmi le ali d'un avoltoio o di un'aquila, le sole proporzionate al corpo d'un uomo, e così tentare una pruova. Presi adunque questi uccelli, e tagliai accuratamente l'ala destra dell'aquila e la sinistra dell'avoltoio, le congiunsi, me le attaccai agli omeri con forti corregge, adattai alle punte un ingegno per tenerle con le mani, e feci la prima pruova, saltellando ed aiutandomi con le mani, e come le oche che appena si levan di terra, io andavo su le punte de' piedi e dibattevo l'ali.
Accortomi che riuscivo, divenni più ardito, e montato su la cittadella mi diedi in giù, e venni fin sopra il teatro. Fatto questo volo senza pericolo, ne tentai altri più lontani e più alti: e spiccatomi dal Parneto o dall'Imetto andavo librato fino al Geranio; e di là sopra l'Acrocorinto; e poi sul Foloe, sull'Erimanto sino al Taigete. L'esercizio mi crebbe l'ardire, e l'arte, e la forza di montare più su, e far altri voli che questi da pulcini: onde montato su l'Olimpo, leggiero quanto più potevo, con un po' di provvisione, mi levai diritto al cielo. In prima l'altezza grande m'aggirava il capo, ma dipoi mi vi adusai facilmente.
Avvicinandomi alla luna, e lasciate molto indietro le nuvole, mi sentivo stanco, massime nell'ala sinistra, quella dell'avoltoio: però arrivato in essa, e sedutomi, mi riposavo, guardando giù su la terra come il Giove di Omero, e gettando lo sguardo or su la Tracia altrice di cavalli, or su la Mesia; e poi a mio talento su la Grecia, su la Persia, su l'India: e quella gran vista mi empiva di diletto maraviglioso.
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E primamente parvemi molto piccola veder la terra, assai più piccola della luna; per modo che a un tratto volgendomi in giù, non sapevo più dove fossero questi monti e questo sì gran mare; e se non avessi scorto il colosso di Rodi e la torre del Faro, la mi saria interamente sfuggita. Ma queste due moli altissime, e l'Oceano che tranquillo rifletteva i raggi del sole, mi fecero accorto che io vedevo la terra. E come vi ficcai gli occhi attenti mi si parò innanzi tutta la vita umana, non pure le nazioni e le città, ma gli uomini stessi, chi navigava, chi guerreggiava, chi coltivava i campi, chi piativa; e le donne, e le bestie, e tutto quello che l'almo seno della terra nutrisce.
Quando adunque io mi accorsi di vedere la terra, ma di non poter discernere altro per la gran lontananza, per la quale appena vi giungeva l'occhio, io mi sentii tutto contristato e smarrito. E stando in questo affanno, e quasi spuntandomi le lagrime, ecco da dietro le spalle mi viene innanzi il filosofo Empedocle, nero come un carbonaio, e incenerato, e mezzo abbrustolato. Come io vidi costui, ti dico il vero, mi sconturbai, e lo credetti un qualche genio lunare. Ma egli: Non temere, o Menippo, disse; io non sono un iddio; perchè mi pareggi agl'immortali? Io sono il fisico Empedocle. Poichè mi gettai nei crateri dell'Etna, da un vortice di fumo fui portato qui nella luna, dove ora abito, e vo passeggiando per l'aere e mi cibo di rugiada....[..]
Una storia vera
(traduzione di Luigi Settembrini)
Lo scrittore all'inizio della sua opera avverte il lettore:
“...di avervi messe dentro molte finzioni che paiono probabili e verosimili; ma perché ciascuna delle baie che io conto, è una ridicola allusione a certi antichi poeti e storici e filosofi che scrissero tante favole e meraviglie...Scrivo dunque di cose che non ho vedute, né ho sapute da altri, che non sono, e non potrebbero mai essere...”
L'autore parte con una nave e dei compagni di viaggio verso le colonne d'Ercole; le supera...
“ Verso il mezzodì, disparita l’isola, un improvviso turbine roteò la nave, e la sollevò quasi tremila stadii in alto, nè più la depose sul mare: ma così sospesa in aria, un vento, che gonfiava tutte le vele, ne la portava. Sette giorni ed altrettante notti corremmo per l’aria: nell’ottavo vedemmo una gran terra nell’aere, a guisa d’un’isola, lucente, sferica, e di grande splendore.
Avvicinatici ed approdati scendemmo: e riguardando il paese, lo troviamo abitato e coltivato. Di giorno non vedemmo niente di là; ma di notte ci apparvero altre isole vicine, quali più grandi, quali più piccole, del colore del fuoco, e un’altra terra giù, che aveva città, e fiumi, e mari, e selve, e monti: e pensammo fosse questa che noi abitiamo. Avendo voluto addentrarci nel paese fummo scontrati e presi dagl’Ippogrifi, come colà si chiamano.
Questi Ippogrifi son uomini che vanno sopra grandi grifi, come su cavalli alati: i grifi sono grandi, e la più parte a tre teste: e se volete sapere quanto son grandi immaginate che hanno le penne più lunghe e più massicce d’un albero d’un galeone.
Questi Ippogrifi adunque hanno ordine di andare scorrazzando intorno la terra, e se scontrano forestieri, di menarli dal re: onde ci prendono e ci menano a lui.
Il quale vedendoci e giudicandone ai panni, disse: Ebbene, o forestieri, siete voi Greci? E rispondendo noi di sì.
E come, ci dimandò, siete qui giunti, valicato tanto spazio d’aria?
Noi gli contammo per filo ogni cosa; ed egli ci narrò ancora de’ fatti suoi, come egli era uomo, a nome Endimione, e come una volta mentre ei dormiva fu rapito dalla nostra terra, e venne quivi, e fu re del paese. Questa, diss’egli, è quella terra che voi vedete di laggiù e chiamate la Luna."